“THIS IS IT:” HOW ROBERT CAPA GOT THE PICTURES

“CI SIAMO:” COME ROBERT CAPA SCATTO’ LE FOTO

di JOHN G. MORRIS  

(tratto dall’ INTERNATIONAL HERALD TRIBUNE del 4 Giugno 2004)

 

 

Le notti erano state tranquille da Febbraio, ma Londra stava ancora vivendo nei blackout durante la decisiva primavera del 1944.

I lampioni emettevano soltanto luce fioca. All’imbrunire tiravamo pesanti tende alle nostre finestre. In Febbraio, notte dopo notte, quasi un centinaio di aerei tedeschi avevano sganciato bombe durante il cosiddetto piccolo blitz. Le autorità rivelarono che 50.324 Inglesi erano morti fino ad allora nella guerra aerea e 163.075 erano rimasti feriti.

A quel tempo dividevo un appartamento, nella zona orientale, con Frank Scherschel, un fotografo della rivista LIFE. Io ero l’editore ma non riuscivo a vedermi come il suo capo. Frank era stato vittima di un incidente di atterraggio nel Kent mentre era di ritorno da un raid sopra Stoccarda, a bordo di una fortezza volante. Nello stesso giorno vennero persi ben 35 aerei Americani.

Il nostro appartamento, al 24 di Upper Wimpole Street, apparteneva ad un dentista, che aveva liberato l’appartamento dallo studio ma vi aveva lasciato la poltrona per i pazienti. Venivamo splendidamente serviti dalla coppia del piano inferiore, il Sig.Lloyd e sua moglie. Lloyd era stato cerimoniere professionista per incontri ufficiali e, durante gli attacchi aerei, era solito chiamarci con “gradireste una tazza di tè?”, il che stava a significare di scendere maledettamente in fretta per andare a rifugiarsi in cantina fino a che fosse suonata la sirena del cessato allarme.

Martedì 6 Giugno del 1944 iniziò come ogni altro giorno monotono e grigio, tranne che per il fatto che era più freddo di quanto Londra avrebbe dovuto essere in quel mese. L’allarme mi svegliò alle 8. Ero solo. Frank era semplicemente sparito, qualche giorno prima, senza dire ciao come gli era stato ordinato. Sapevo che era andato alla sua base aerea. Andai alla finestra, aprii la tenda e guardai giù nella strada calma. Poi mi feci un tè ed accesi la radio.

Intorno alle 9 e mezza la BBC trasmise il seguente comunicato: “Stamattina, sotto il comando del Generale Eisenhower, le forze navali Alleate supportate pesantemente dalle forze aeree Alleate, hanno effettuato sbarchi di truppe sulla costa settentrionale della Francia.”

“Ci siamo,” mi dissi, usando le stesse parole che Joe Liebling del The New Yorker, definì in seguito “il grande cliche della II Guerra Mondiale.”

Mi vestii e guidai con la mia piccola Austin aziendale fino all’ufficio del TIME and LIFE in Dean Street, nel distretto di Soho. A 27 anni ero già un veterano della rivista LIFE. Avevo iniziato come CBOB (college boy office boy - studente lavoratore) nell’ufficio di New York a Rockefeller Plaza, avevo lavorato per un pò a Washington e per un anno a Los Angeles. Ero là quando i Giapponesi attaccarono Pearl Harbour, nello stesso giorno del mio 25 esimo compleanno, e feci uno scoop, nel Febbraio del 1942, quando un sottomarino Giapponese colpì un deposito di petrolio vicino a Santa Barbara. La mia mano, con una scheggia del proiettile esploso, venne pubblicata in copertina di LIFE.

Nell’autunno del 1943, con la guerra al culmine, mi ero offerto volontario per andare a Londra, lasciando a casa mia moglie in attesa di un bimbo e mia figlia. In quel momento avevo quindi un figlio di 6 mesi che non avevo mai conosciuto. Mia moglie ed io ci salutammo, in maniera decisa e senza lacrime, alla stazione di Grand Central. Con John Scott della rivista TIME presi il treno per Saint John, nel New Brunswick, dove ci imbarcammo su una piccola nave da trasporto Norvegese. Il capitano, un veterano con oltre 50 traversate durante la guerra, preferiva viaggiare senza navi di scorta ma ciò lo costringeva a deviare almeno fino alle Azzorre prima di poter puntare verso il porto di Liverpool.

Il mio compito a Londra, come mi avevano stato detto senza mezzi termini durante l’ultima bevuta nel bar Men’s a Waldorf, sarebbe stato di “avere le foto” dell’eventuale invasione dell’Europa. Erano giorni in cui la televisione non c’era ancora e LIFE si vantava di essere “la più grande forza editoriale in America”. Eravamo sfacciatamente propagandisti per gli sforzi bellici Alleati. Mi era stato dato un team di addirittura 6 fotografi per il grande giorno.

Iniziai 8 mesi prima dello sbarco. Questo ci diede il tempo di preparare altre storie: racconti sulla Chiesa d’Inghilterra e la Casa dei Comuni, le elezioni di un nuovo membro del Parlamento nel Derbyshire, la gara di bellezza di Miss Londra, la trasmissione “Questo è l’Esercito” di Irving Berlin e il funerale di Sir. Dudley Pound quando vidi Sir Winston Churchill passeggiare calmo durante la processione.

Cercavamo anche di divertirci. Mangiavamo bene utilizzando la nota spese e ci veniva riconosciuta la stessa razione di sigarette degli ufficiali. I corrispondenti di guerra erano assimilati ai Capitani in caso di cattura. C’erano pranzi alla White Tower e feste al Dorchester. La festa più memorabile fu quella offerta da Robert Capa, il leggendario fotografo di guerra della rivista LIFE, per onorare il suo amico Ernest (Papa) Hemingway corrispondente della rivista COLLIER’S. Avevano lavorato insieme durante la guerra civile Spagnola. La festa duò fino alle 4 del mattino, quando il punch finì. Papa finì in ospedale dopo essere stato portato a casa in un camion per il rifornimento dell’acqua.

Capa avrebbe di nuovo segnato la storia. Sebbene la rivista LIFE avesse molti fotografi Capa fu l’unico reporter che riuscì a far parte della prima ondata di sbarco del D-Day. Sbarcò all’alba in Normandia vicino a Saint-Laurent-sur-Mer, nella zona “Easy Red” della spiaggia di Omaha, con la Compagnia E (2° Battaglione, 16° Reggimento, 1 Divisione). Le sue memorie “Slightly Out of Focus” (leggermente fuori fuoco), descrivono senza mezze parole lo sbarco: “La mia splendida Francia appariva sordida e per nulla invitante, ed una mitragliatrice tedesca che sputava proiettili intorno al mezzo da sbarco rovinò il mio arrivo. Gli uomini sul mio mezzo da sbarco arrancavano nell’acqua. Immersi fino alla cintola, con i fucili pronti a sparare, sullo sfondo gli ostacoli in cemento e la spiaggia fumante.”

Le cose in breve da brutte diventarono orribili. Dopo aver scattato quattro rullini di fotografie Capa se la vide brutta e tornò in Inghilterra su un mezzo che trasportava i feriti, ma solo per tornare immediatamente in Normandia appena consegnati i preziosi rullini.

A Londra aspettavamo. Nessuna notizia dai fotografi durante tutto il giorno di Martedì. Quella notte Bert Brandt della Placet/Acme, il servizio stampa della United Press, tornò a Londra con una prima fotografia presa da un mezzo da sbarco. La foto accese solo l’appetito del pubblico per le immagini d’azione. Attendemmo anche per tutto il giorno di Mercoledì fino a che, finalmente, circa alle 6 della sera, ricevetti una telefonata che mi informava che i rullini di Capa stavano arrivando a Londra attraverso un corriere. Qualche ora dopo arrivò un motociclista con un piccolo pacchetto con le pellicole. Una nota scritta a mano da Capa che diceva: “John, tutta l’azione è nei quattro rullini da 35mm.” Ordinai ai tecnici della camera oscura di Life “in fretta per l’amor di Dio!” Era necessario fare delle stampe aggiuntive prima di mandarle in stampa: 4 copie di ciascuna foto dovevano essere inviate per la verifica della censura, ed eravamo ormai quasi al limite per la spedizione al LIFE a New York.

Pochi minuti dopo un ragazzo dalla camera oscura arrivò correndo isterico nel mio ufficio urlando “le pellicole sono rovinate, rovinate!!!”. Spiegò che le aveva appese come sempre nella stanza di asciugatura ma, per la fretta, aveva chiuso la porta. Faceva troppo caldo; l’emulsione si fuse. Corsi nella camera oscura con lui. Tenevo in mano i negativi. Null’altro che emulsione grigia su tre di esse, ma sulla quarta c’erano ancora 11 immagini visibili.

Quelle sono le fotografie che fecero la storia di copertina di LIFE del 19 Giugno 1944: “TESTE DI PONTE IN NORMANDIA: La fatale battaglia per l’Europa è combattuta dal mare e dal cielo.” Sono le stesse foto che Steven Spielberg studiò per “Salvate il Soldato Ryan”, il film che probabilmente ricrea più fedelmente quello che accadde realmente il D-Day.

Quelle sono le foto per le quali oggi ricordiamo il D-Day: 6 Giungo 1944. Un Martedì.

 

Recentemente sono tornato a Omaha Beach. C’è un campo di golf poco lontano e la spiaggia appare uggiosamente tranquilla. Più tranquillo di tutto è il cimitero dove riposano i morti Americani, fila dopo fila, sotto lapidi bianche e allineate.

Per la prima volta visitai anche il cimitero tedesco poco lontano, dove giacciono altre migliaia di uomini e donne, in gruppi di cinque, molti senza nome. I Francesi ora gli rendono onore, come alle migliaia di civili Francesi che morirono in Normandia e che la storia non mise in evidenza.

Oggi, 133 anni dopo la guerra Franco Prussiana che terminò nel trattato di Francoforte, 86 anni dopo la capitolazione dei tedeschi su un carro ferroviario a Compiegne, 59 anni dopo che si arresero in una piccola scuola rossa a Reims è chiaro che non ci sarà più guerra tra Francia e Germania.

 

 
 

le foto di Robert Capa

 

newsletter@euroarms.net